UN QUADERNO DI APPUNTI PER CHI VUOLE PRENDERSI CURA DELLE PERSONE, ANCHE MENTRE SCRIVE.
Predico, per modo di dire ma razzolo male, la scrittura semplice, efficace, inclusiva: mi dico sempre “accorcia le frasi, usa i verbi in forma attiva, dimentica il linguaggio impersonale, usa parole concrete e vicine alle persone che leggono, combatti il burocratese e in generale il difficile se e la fuffa”. Sono o non sono suggerimenti inclusivi, questi? Boh forse penso di sì!
Ecco perché quando ho incominciato a informarmi sul linguaggio inclusivo mi sono sentita a casa, anche se ignorante. Si tratta di ampliare, di portare dentro un aspetto che non riguarda solo le parole, ma la mia idea di società e di lì non si scappa. Anzi, di qui, non si scappa.
Mi rivolgo a chiunque abbia voglia di leggere e, in particolare, mi siedo accanto a chi lavora in azienda e si mette le mani nei capelli pensando a quante cose non sa. Purtroppo la sensazione di non sapere non diminuirà, leggendomi, ma spero invece che diminuirà la preoccupazione. Su questo tema stiamo imparando, e quando si impara si sbaglia, per forza. Quindi, un passo alla volta.
Il mio primo consiglio è affrontare la questione da un punto di vista pratico e quello di tenere un quaderno è solo l’inizio. Serve per rispondere a una domanda: come parlare in maniera rispettosa a più persone possibile? Il mio secondo consiglio ha un nome proprio: auto rappresentanza. Coinvolgere nei progetti di inclusione linguistica (oltre che sostanziale) le persone che vivono sulla propria pelle, ogni giorno, cosa vuol dire quando la società non trova le parole (o le sbaglia proprio) per parlare con te e di te. Facciamo in modo che ognuno possa parlare per sé.
PERCHÉ SCRIVERE CHIARO E SEMPLICE È GIÀ USARE UN LINGUAGGIO INCLUSIVO
Per me la scrittura è quella che sa farsi semplice e concreta. È la scrittura che usa la chiarezza cristallina della triade soggetto-verbo-complemento oggetto, quando è informativa, ma che è anche in grado di giocare con i colori e le metafore e gli spessori, quando racconta. Che non è mai “sciapa”, ma naturale. È quella che si prende cura di chi legge: pensa alla tensione cognitiva provocata da frasi lunghe, periodi contorti e difficile se; alla sensazione di fastidio o vero e proprio disagio che può provocare un testo muto o che esclude. Muto, perché in concreto non dice niente: aria fritta. Che esclude, perché parla solo a chi condivide già un certo lessico, decripta certe sigle e, magari, sguazza dentro una comune aulicità egoriferita.
La scrittura chiara, concreta, piana include persone di tante età, svariate provenienze, illimitate necessità. La scrittura semplice, qual è quella che si fa capire, parla in continuazione a chi legge, suggerisce strade, fornisce orientamento, risponde alle domande prima che siano formulate. La scrittura semplice, che non vuol dire trasandata, esprime comprensione nei confronti di chi legge perché deve farlo. O meglio, dovrebbe farlo, il bugiardino prima di prendere una medicina, il modulo prima di firmarlo, ma anche il contratto prima di sottoscriverlo. Chi scrive deve pensare sempre anche a questo aspetto e ricordarsi che nessuno può essere obbligato a leggere, ma invogliato a farlo sì.
Ecco, scrivere ci mette ogni giorno davanti alla necessità di scegliere quali parole usare. In base al nostro obiettivo, a chi siamo, a qual è il contesto in cui ci muoviamo e alle persone che ci leggono; ma anche in base alle ricadute sociali che queste parole avranno. Chiunque scriva e venga letto da altre persone ha il dovere di riflettere sul fatto che ogni suo florilegio di parole lascia una traccia, seppur piccola.
Scrivere in maniera semplice i testi di lavoro coinvolge chi legge, che può concentrarsi sui contenuti e smettere di perdere tempo cercando di indovinare cosa si nasconde dietro paroloni o strutture complesse. Chi ci legge non deve indovinare, dedurre o interpretare. Deve innanzitutto leggerci (e non è per niente scontato), capirci e poi seguirci. Cioè fare ciò che gli chiediamo, collaborare, giocare in squadra con noi, insomma.
Le parole – tutte quante le parole – sono come scatole: bisogna aprirle e vedere come sono fatte, come suonano, che temperatura hanno, quanta ricchezza e quante sfumature possono contenere.
Comunicare è faticoso, e la normalità è che non funzioni; i parametri di cui tenere conto sono talmente tanti, ci sono talmente tante variabili in azione che non c’è nulla di strano se il messaggio «non passa». Anzi, dobbiamo abituarci che più il mondo attorno a noi si fa complesso, più l’incontro-scontro con le diversità diventa esperienza quotidiana e più è normale non capirsi, fraintendersi, fallire nello scambio di idee. E quindi, come fare? Prima di tutto, prendere atto di questa semplice realtà: la riuscita dell’atto comunicativo non è gratuita, ma ha un suo costo in termini di tempo, attenzione e impegno. La fatica della comunicazione è la vera normalità.